24/04/2024

Indignados

 
                              (versión en español)     
 
L’attuale crisi del sistema capitalistico sta aprendo panorami imprevedibili fino a qualche anno fa, perché pare una crisi definitiva del sistema dominante, o quanto meno una crisi che costringerà a una ristrutturazione del sistema stesso. Il movimento globale degli Indignados è nato, imprevedibilmente, in conseguenza di questa crisi e si è sviluppato in situazioni estremamente diverse e in luoghi diversi del globo. Indignados non sono soltanto i giovani spagnoli che hanno occupato le piazze principali delle città spagnole o i giovani israeliani che si sono accampati nel centro di Tel Aviv o il movimento Occupy Wall Street a New York, ma anche i giovani egiziani, tunisini, libici che hanno rovesciato i loro regimi dittatoriali. Potremmo, quindi, considerare Indignados anche i giovani siriani che lottano contro un sistema dittatoriale brutale e sanguinario; o ancora potremmo considerare Indignados i russi che protestano contro un regime, solo apparentemente democratico, in realtà autoritario, che si sta evolvendo verso una vera e propria dittatura; o ancora gli ungheresi democratici che contestano un governo fascista, razzista, nazionalista ed etnocentrico. Essere indignado significa oggi essere contro il capitalismo globalizzato per motivi diversissimi, ma sostanzialmente perché non si può più progettare alcun futuro. Essere indignado significa negoziare i diritti minimi alla vita che sono diventate totalmente incompatibili con la riproduzione del capitale, del sistema dominante politico ed economico. A questo punto della loro lotta politica gli Indignados hanno espresso, allo stesso tempo, un rifiuto completo della società di consumo e una profonda attenzione verso la questione ambientalista; hanno messo in discussione due principi della riproduzione del sistema dominante. Vorrebbero poter essere integrati nel sistema economico dominante, ma essendo nella condizione di esclusi dal sistema, ne mettono in discussione i tratti più essenziali, ma non hanno ancora un progetto economico alternativo a quello del sistema dominante.
La loro protesta parte da una presa di posizione individuale, ispirata ad un comportamento conveniente (καθεκοντος, che sarebbe ciò che il singolo soggetto riesce a concepire di se stesso) al raggiungimento del loro obiettivo di protesta. È un comportamento ispirato al decoro (decorum, che è una maschera, che significa anche “dignità”), che si unisce ad analogo comportamento di altri soggetti anche loro in stato di ribellione, fino al punto di diventare un comportamento collettivo. Tutti questi soggetti, in stato di ribellione, sono tesi alla ricerca di ciò che è giusto fare (officium) nelle loro condizioni e situazioni in cui si trovano, il che un dovere sociale; quindi anche ciò che è appropriato (decorum) ai fini della lotta, un comportamento soggettivo comunitario. Ci troviamo di fronte all’elaborazione di un nuovi modi di comportamento singolo e collettivo, direi individuale, che adesso vengono esibiti in pubblico per divenire modelli di comportamento diffuso, come è stato nel caso delle proteste giovanili del 1968.
Infatti un primo e immediato dato comune a tutti gli Indignados del mondo è il fatto che la stragrande parte di loro è formata da giovani. Siamo alle soglie di un nuovo ’68? Difficile dirlo, ma è un dato di fatto che il sistema non offre futuro ai giovani. Ed essere giovane significa essere nella condizione di avere il vigore della dignità. Sembra un destino segnato fin nelle parole della lingua originaria dell’Occidente, infatti in sanscrito “forza” è la stessa parola che “giovane” e cioè bala. E come ricorda il Marx delle “Glosse a Wagner” avere dignità significa essere dignus, cioè avere valore e in sanscrito “validità” è ancora una volta bala. Quindi essere giovani significa avere valore, perché si ha vigore. Da questi giovani si può aspettare una vigorosa protesta di indignazione, perché l’indignazione ne cambia lo stile di vita, crea nuova forme di aggregazione sociale nelle piazze che loro occupano. In latino essere indignato è indignatio commutatus, cioè essere cambiato dall’indignazione. Ancora in sanscrito abhyasuya è “indignazione”, ma anche “rabbia”, e asuya è sia di “intolleranza” che di “indignazione”. L’indignato è colui che non può più tollerare una situazione per lui divenuta invivibile. In tutto ciò c’è anubhava che è “determinazione”, “risoluzione”, “fermezza”, ma anche “dignità”. È una tradizione dell’Occidente quella dell’indignazione di fronte a ciò che non può più essere sopportato. si pone una condizione nuova, lo stato di ribellione che trasforma i soggetti che vi partecipano, emancipandoli da un presente oppressivo. Siamo entrati nell’epoca della manyu, della “passione”. Il futuro sarà segnato da queste passioni scatenate? Difficile dirlo, certamente il presente è fortemente segnato da questa presenza passionale, da queste piazze occupate con entusiasmo antisistemico.
Manuel Castells, il famoso sociologo catalano, che però abitualmente scrive in inglese e ha partecipato in prima persona al movimento del 15-M, gli Indignados spagnoli, nella sua natia Barcellona, parla dell’entusiasmo come emozione più rilevante per la mobilitazione sociale, insieme alla paura[1]. L’entusiasmo mette in moto un’altra emozione positiva: la speranza, che è sempre proiezione nel futuro, perché, come insegna Ernst Bloch, la speranza è più forte della morte. Gli Indignados stanno proprio lottando per avere una futura vita dignitosa. Bisogna abbandonare emozioni negative come ansia e rabbia, perché potrebbero paralizzare l’azione, in un caso, o spingere alla violenza, in un altro. Il sistema dominante vuole proprio che si scateni la violenza degli Indignados per reprimerli con la propria incommensurabile violenza. I frequenti casi di repressione violenta da parte del sistema tendono proprio a trascinare l’azione politica degli Indignados nel campo della violenza per scatenare su di loro la violenza dei propri apparati repressivi e la violenza dei propri mezzi di comunicazione. Già oggi, quando il movimento degli Indignados non si è mai macchiato di azioni di violenza, anzi le ha subite, alcuni mezzi di comunicazione dipingono gli Indignados come paria o emarginati, dediti, se non alla violenza, almeno alla droga, al alcool, alla generica depravazione, attirando su di loro l’indignazione della opinione pubblica, che si rende conto con la propria osservazione diretta che si tratta del solito gioco indegno del potere della comunicazione di massa. Infatti la approvazione nei confronti degli Indignados è ampia, anche in settori non composti da giovani, proprio per il loro palese e convinto rifiuto della violenza. 
Altra osservazione minima è che gli Indignados sono la palese dimostrazione che il sistema ha fallito, perché nella sua spasmodica ricerca del tasso di profitto non ha più tenuto conto della forza lavoro. Il fordismo aveva sviluppato un sistema in cui la forza lavoro, o meglio detto il lavoratore, fosse sempre integrato nel sistema in ogni singolo aspetto della sua vita, intima e sociale, psicologica e razionale, singola e collettiva: aveva fondato un in-dividuum, un essere unico, ove tutti gli aspetti potessero essere controllati dal sistema dominante. Oggi una infima minoranza della società civile ha concentrato nelle sue mani una ricchezza tale che la stragrande maggioranza non può sviluppare un progetto di vita possibile. Quell’in-dividuum è stato diviso dallo stesso sistema economico che lo aveva prodotto. La sua forza lavoro, il lavoro vivo, è separato dalla riproduzione della stessa forza lavoro: c’è chi consuma senza produrre e chi produce senza consumare. I giovani europei sono nella condizione di consumare una ricchezza prodotta dai loro genitori, ma non hanno prospettive di produrre una propria ricchezza, e questa ricchezza è destinata ad esaurirsi nel più immediato futuro. I lavoratori alla periferia del sistema, cioè in paesi in via di sviluppo, producono ricchezza, ma hanno consumi contenuti e limitati. Il funzionamento del sistema, senza limiti offerti da una alternativa al sistema stesso, come il tanto temuto sistema del socialismo reale, sta mettendo in crisi la riproduzione stessa del sistema dominante. La distribuzione della ricchezza restituirebbe alla società civile umana, cioè all’intera umanità, la possibilità di progettare la propria vita.
Accanto a queste tematiche, valide genericamente per tutti i movimenti degli Indignados in tutto il globo, si uniscono i temi specifici delle rivoluzioni arabe in corso, che sono un movimento politico eversivo nei confronti dei regimi politici di quella parte del mondo, sostenuti se non imposti dal sistema capitalistico dominante. In fondo, però, si sta sviluppando una critica islamica al capitalismo, che è anch’essa una critica per la liberazione dell’essenza umana dallo sfruttamento capitalistico. Infatti il movimento degli Indignados arabo esprime idee tipiche dei movimenti politici radicali occidentali, come ad esempio l’eguaglianza femminile, il diritto al lavoro o alla libertà di espressione. Sono diritti che diventano laici in una società fortemente ispirata dai principi religiosi islamici, ai quali si aggiungono richieste di natura più strettamente politica: la restauración de la democrazia, es decir, la fin del regimen militar y policial; la instauración de una nueva política economica y social favorable a las clases populares, lo que significa la ruptura con las exigencias del liberalismo globalizado y una política internacional indipendente»[2]. Questa rottura con il sistema del liberalismo globalizzato mette gli Indignados arabi in continuità con la protesta degli Indignados del resto del pianeta, a dimostrazione che la primavera arabe rientra in questo movimento antisistema, che in quei paesi è anche sovvertimento dell’ordine politico esistente. Questo contrasto diviene palese in Egitto, dove i Fratelli Musulmani hanno dichiarato il loro sostegno alla proprietà privata, perché questa «es sagrada para el Islam y que la reforma agraria está inspirada por el demonio comunista»[3]. Ciò fa comprendere la radicalità della ripresa della lotta di liberazione degli Indignados egiziani o tunisini contro i Fratelli Musulmani, che stanno riproponendo gli stessi rapporti di produzioni che erano a fondamento dei regimi dittatoriali di Ben Alì in Tunisia e di Mubarak in Egitto.
Enrique Dussel, il filosofo della Liberazione, ha scritto una Carta a los Indignados, ove ha avanzato una proposta politica al movimento degli Indignados. La sua proposta viene dall’esperienza di lotta sociale dell’America latina, una realtà sociale in cui la protesta è ancora concentrata su obiettivi concreti. In America latina i movimenti di indignazione sono molto più antichi, perché sono stati movimenti indigeni, che rivendicavano il riconoscimento della loro dignità umana, fin dal momento iniziale della conquista del continente, quando si è cominciato a costruire il sistema dominante sull’intero pianeta, il sistema capitalistico. Gli Indignados di oggi hanno un predecessore nelle lotte indigene che hanno portato alla Presidenza della Repubblica boliviana Evo Morales, oppure ai movimenti di lotta sociale che hanno portato alla Presidenza della Repubblica bolivariana del Venezuela, Hugo Chavez. Proprio all’esperienza di Chavez Dussel fa riferimento quando parla di “leadership carismatica” ed è consapevole che si tratta di un punto critico della sua Lettera agli Indignados. È un punto critico perché la cultura politica del Novecento ha vissuto tragicamente i momenti politici in cui un leader dominava la scena politica. Mi riferisco sostanzialmente alla prima metà del Novecento, quando Führer o Duce o Caudillo erano termini del lessico quotidiano della politica. La figura di un Ceaucescu, il Conducator comunista rumeno sarebbe apparsa ridicola, se non fosse stata in realtà una tragedia per il suo popolo. Anche Berlusconi ha assunto fattezze da leader, ma per fortuna è rimasto relegato al campo del ridicolo.
Non c’è dubbio che il leader, carismatico o meno, è un momento di relazione tra cittadini e potere, ma può essere anche un momento di usurpazione della potentia politica, altrimenti detto il potere naturale, dei cittadini da parte della potestas, il potere istituzionale, di un uomo solo, il Capo. Il leader carismatico solitamente indica una meta, un fine da raggiungere affinché il progresso della nazione sia aumentato. Troppo spesso, invece, il Capo indica nemici della causa nazionale, oppure in versione ridotta della sua causa personale scambiata per causa nazionale, riuscendo a mobilitare le masse con processi mediatici isterici o euforici, ma sempre finalizzati all’impedimento di un’analisi razionale della situazione politica e sociale ed economica.
Il leader a cui si riferisce Dussel è una figura analoga a quella a cui si riferisce Gramsci con il suo “cesarismo progressivo”, cioè un leader che è capace di divenire il protagonista di un cambiamento rivoluzionario radicale, a partire dall’alto, della società civile. È qualcosa di più dell’individuo “cosmico-storico” hegeliano, perché è portatore di valori e progetti politicamente possibili, perché corrispondono a richieste ed esigenze della società civile o di ampi strati di essa. Non è una figura o un ruolo politico consono ai tempi attuali, che sono dettati dal sistema dominante, perché adesso si preferiscono i tecnici, gli esperti di economia e finanza, che possono essere anche figure mediatiche, che piacciono per la loro apparente presentabilità, unita a una superficiale riflessione politica. Dussel si richiama piuttosto a programmi politici. Chavéz e Morales in effetti stanno imponendo dall’alto un cambiamento radicale alle loro società civili. Chavéz, in particolare, si è reso protagonista di cambiamenti radicali dal punto di vista costituzionale, quindi della struttura fondamentale dello Stato di diritto, che sarebbe opportuno riportare anche nelle costituzioni dei paesi più progrediti, come il Potere delegato ai rappresentanti politici, che implica una rappresentanza ristretta dal controllo civico. Il Potere civico è l’altra novità connessa al Potere delegato, in quanto i cittadini possono revocare il mandato di rappresentanza, raccogliendo un numero prefissato di firme e confermando in elezioni, appositamente convocate, la volontà di revocare il potere precedentemente concesso. Castells, che in quanto esponente dell’intellettualità europea e nord-americana –insegna oltre che all’Universitat Oberta de Catalunya anche nella Southern University of California- non ha in gran simpatia l’opera costituzionale rinnovatrice di Chavéz e, quindi, ha del tutto ignorato che quanto accaduto in Islanda, cioè la caduta del governo su esplicita sfiducia popolare e poi la stesura di una costituzione a partire da una commissione popolare erano esperienze politiche già anticipate in America latina[4].
Inoltre il potere di leadership, per Dussel, è sempre proveniente da un atto di obbedienza alla volontà popolare, il leader può comandare se obbedisce alle richieste e alle esigenze popolari. Questa concezione del potere obbedenziale proviene dall’esperienza dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, cioè dal movimento zapatista in Chiapas. Il leader, quindi, non esercita arbitrariamente e autoritariamente il potere, ma sempre sotto il controllo del mandato popolare e alla condizione di obbedire alle esigenze della società civile. Dussel precisa funzioni e limiti del potere della leadership: «El liderazgo democrático se justifica en estos casos como complementario al proceso democratizador del pueblo. Dicho liderazgo aparece simultáneamente con la emergencia del pueblo como actor colectivo. El que ejerce el dicho liderazgo debe tener plena conciencia de los límites de un poder simbólico que es siempre delegado e investido por el pueblo, que es la única sede soberana del mismo»[5]. Naturalmente nel caso di Chavéz, ciò avviene in forme che possono apparire folcloristiche, specialmente se rappresentate da mezzi di comunicazione di massa che sono, in fondo, legati ad aziende che hanno contrasti con Chavéz e, quindi, hanno interesse a ridicolarizzarne la figura.
Attualmente il movimento degli Indignados non ha alcun leader, anche perché nasce dalla disperazione diffusa, vissuta comunitariamente, la cui analisi è immediata, né tantomeno pare che un uomo possa avere nelle proprie mani la soluzione a una situazione tanto disperata. Castells sostiene che il movimento degli Indignados è un movimento composto da individui che stanno agendo in gruppo, ma non insieme, perché «i movimenti sociali, di sicuro oggi e probabilmente nel corso della storia, sono composti da singoli individui», «Le radici [di questi movimenti] vanno cercate nella fondamentale ingiustizia presente in ogni società, in continua contrapposizione con l’aspirazione umana alla giustizia»[6]. Gli Indignados sono il prodotto della società plasmata dal sistema capitalistico dominante, appunto individui singoli, senza alcun legame con altri come loro. «Non c’è stata alcuna decisione formale, ma in pratica tutti sono stati d’accordo, fin dall’inizio del movimento. Non ci sarebbero stati capi né locali né nazionali. Nemmeno dei portavoce autorizzati»[7] Manca una unità di fondo, esclusa quella data dall’indignazione, che è poi in fondo una sollevazione, non ancora un rovesciamento programmato della situazione in cui si vive. Gli Indignados vorrebbero, addirittura, essere inseriti, anche sfruttati, dal sistema dominante e, invece, ne rimangono fuori, non possono lavorare, né hanno mezzi per studiare. In queste condizioni anche se ci fosse una leadership non sarebbe neanche riconosciuta come tale, ma scambiata come la leadership adatta per una singola manifestazione di protesta. Dussel suggerisce che, se dovesse trovare una leadership, questa dovrebbe essere sottoposta al Potere delegato, al Potere civico e al Potere obbedenziale.
L’esperienza attuale delle trasformazioni politiche, che pongono l’America latina all’avanguardia della lotta di emancipazione popolare, quanto è valida per la lotta degli Indignados? Completamente valida, anche se alcune condizioni limitano l’applicabilità di quell’esperienza politica al movimento degli Indignados. La prima limitazione è data proprio dalla mancanza di coscienza comune al movimento degli Indignados, al di là dell’indignazione etica che li porta alla protesta. Anche una superficiale conoscenza degli obiettivi di lotta delle popolazioni latinoamericane rende coscienti che questa lotta fu condotta per raggiungere l’obiettivo di dare la possibilità a tutti i latinoamericani di sviluppare un progetto di vita, cioè proprio quello che inizia ad essere negato adesso nel centro del sistema dominante ai cittadini degli Stati più avanzati e progrediti. La precedente esperienza di lotta dei latinoamericani è valida universalmente proprio perché è stata lotta per la vita, per una vita degna di essere vissuta, come l’avevano i cittadini dei paesi avanzati; vita che, adesso, una minoranza di esseri umani inizia a rendere impossibile alla maggioranza degli esseri umani, non solo ai cittadini dei paesi meno avanzati, ma a tutti gli esseri umani. Proprio dalla difesa del diritto ad una vita degna di essere vissuta parte il fondamento della riflessione di Dussel. Già nell’Etica de la liberación en la edad de la globalización y de la exclusión (Madrid, Trotta), la sua monumentale opera del 1998, Dussel si era soffermato nella definizione di cosa significhi una vita degna di essere vissuta. La vita è il fondamento e il principio di ogni diritto, quando non c’è vita non ci sono più diritti, quindi ogni diritto deve rispettare il principio fondativo, che è la vita, una vita degna di essere vissuta. La riflessione politica di Dussel segue la linea rossa di continuità con quella riflessione sull’etica nell’altra opera sistematica che è in corso di stesura, La Política de la Liberación (Trotta, Madrid, 2007 e 2009), della quale sono stati pubblicati due grossi volumi ed è in corso di redazione il terzo e definitivo, poi ripresa più sinteticamente in 20 Tesi di politica, e anche nella Carta a los Indignados.
La riflessione politica di Dussel nasce anche dall’esperienza dei popoli latinoamericani, o meglio dei pueblos, delle piccole comunità che diventano grandi comunità nazionali e statali per affrontare adeguatamente gli enormi problemi della loro vita quotidiana, unendosi in movimenti di lotta comune dentro uno Stato e, in qualche caso, come quello del Movimento dei lavoratori Sem Terra in Brasile o in Paraguay, o del movimento dell’EZLN nel Chiapas messicano. Lo stesso problema si presenta agli Indignados: essi hanno in comune i problemi con i quali vivono, perché oggi gli Indignados vivono un problema comune, la vita futura. Gli Indignados sono una comunità che sta facendo storia, che si sta liberando –come nella Primavera araba- o che anela alla liberazione –come nelle piazze europee o negli Stati Uniti. Comunque il consenso attorno a loro va crescendo, perché cresce il numero di coloro che hanno problemi, cresce il numero dei poveri, mentre diventa sempre più esiguo il numero dei ricchi, anche se cresce la loro ricchezza. Si sta determinando una situazione molto precisa che Dussel descrive molto precisamente: «En un nuevo Estado (…) la participación debe arrancar en la base de todas las instituciones (estatales) a partir de comunidades»[8]. Lo Stato sorge dall’interazione tra comunità, così come storicamente è sorto dall’interazione tra classi sociali. Può sorgere come istituzione repressiva o equilibratrice tra classi sociali o comunità; può essere al servizio delle varie comunità, ma non può essere al servizio delle varie classi sociali, perché se è uno Stato classista, allora sarà uno Stato repressivo per le classi sociali che non rappresenta. Oggi lo Stato democratico deve essere al servizio delle varie comunità. Gli Indignados, quindi,stanno lottando ovunque per lo sviluppo di una forma di Stato al servizio dell’umanità e la loro lotta, seppure in forme diverse, è rappresentativa dell’intera umanità. È una forma di lotta che sta mostrando l’appartenenza di tutti gli uomini al genere umano, appunto perché si verifica per la riappropriazione della propria vita quotidiana in senso politico, sociale ed economico, quindi umano.
La comunità degli Indignados, questa sorta di avanguardia in lotta per il resto del genere mano, è soggetto di una potentia, il potere politico in sé stesso, cioè « la potentia o el poder político en sí, cuya sede exclusiva y última es siempre la comunidad política»[9], rifiuta la potestas delle istituzioni oggi esistenti e si candida a diventare potestas «momento de las instituciones creadas para poder llevar a cabo la vida política»[10], cioè vuole esercitare il potere politico che la governa e l’amministra. Questo è un momento straordinario della storia, uno di quei momenti in cui ciascun individuo vuole autogovernarsi, in cui le masse, i popoli, la gente, per usare le parole più usate della recente filosofia politica, -io direi più semplicemente gli esseri umani- vuole tornare ad essere padrone del proprio potere, del proprio futuro. Stiamo vivendo in un stato di ribellione. Dussel intende lo stato di ribellione come il superamento dello stato di eccezione di cui parlando Schmitt e Agamben: «Lo que Schmitt no imaginó, y Giorgio Agamben lo sugiere sin extenderse como sería conveniente, es que, por su parte, el proprio “stadio de excepción” puede dejarse sin efecto, pero en este caso por el pueblo mismo, como única sede y última istancia del poder político»[11]. In sostanza sono sempre i popoli che impongono uno stato di ribellione di fronte ad uno stato di eccezione. Gli Indignados possono, quindi, superare lo stato di eccezione per imporre uno stato di ribellione, partendo dalla posizione superiore di una propria vita senza futuro, senza dignità. Lo stato di ribellione si instaura quando le istituzioni dello Stato smettono di funzionare: la rappresentanza non rappresenta più i cittadini che ritornano a riassumere il potere sovrano nelle proprie mani. In fondo non si tratta di una ribellione contro, ma a favore dello Stato inteso come comunità politica dei cittadini. La legittimità è restituita agli stessi sovrani dello Stato, cioè ai cittadini.
Ad essere messa in crisi dal movimento degli Indignados è l’istituto della rappresentanza politica democratica, perché la crisi esistenziale, che gli Indignados vivono, mette in discussione la legittimità del sistema, che dovrebbe garantire a tutti i cittadini il diritto a una vita degna di essere vissuta, mentre in realtà offre sempre meno lavoro, educazione e sanità, cioè elementi per una vita degna di essere vissuta. I rappresentanti dei cittadini non sono più riconosciuti come tali dai cittadini. Se ovunque vigessero le leggi del Venezuela, i rappresentanti dei cittadini di quasi tutti i paesi del Primo Mondo avrebbero perso il loro potere rappresentativo. Su questo punto sia Dussel che Castells coincidono. Castells sostiene che lo slogan fondativo del movimento è “ognuno rappresenta se stesso e nessun altro”[12]. L’auto-rappresentatività è anche per Castells il fondamento di un potere esercitabile in prima persona e singolarmente, ma questo porta all’autodeterminazione e al crollo del valore della rappresentanza politica, della lotta politica ispirata a principi che vengono dal di fuori, “dall’alto” per dirla a là Gramsci. Per questa ragione si può spiegare la selvaggia repressione del movimento degli Indignados nella Piazza Catalogna a Barcellona, perché la loro protesta non rientrava nei canoni della protesta etnica di rivendicazione della catalanitat contro lo Stato centrale spagnolo. Il governo provinciale catalano e la polizia catalana non hanno riconosciuto alcun valore civile alla protesta e con la selvaggia repressione hanno mostrato il vero volto della rivendicazione della indipendenza della Catalogna: un nuovo movimento nazionalistico, non meno inquietante dei tanti movimenti nazionalistici di triste memoria.
Come ogni stato di ribellione, questo attuale, nel senso che è in atto e non è soltanto contemporaneo, perché tutti vi siamo coinvolti, non può essere eterno. La potentia dovrà, in un certo momento ancora imprevedibile, diventare potestas. La rivoluzione permanente non è possibile, è necessaria la rappresentanza, ma per non ricadere in una politica corrotta, che si allontana dai problemi veri degli esseri umani è necessario imporre un potere delegato obbedenziale. I rappresentanti dei cittadini devono obbedire alle esigenze di quelli, soltanto obbedendo potranno comandare soluzioni a quelle esigenze. Si tratta di una rappresentanza ristretta, sempre sottoposta al controllo della partecipazione continua e costante dei cittadini. Si tratta di una restituzione di potere o un’appropriazione di potere da parte dei cittadini nei confronti della classe politica. Si tratta per Dussel di una riappropriazione di ciò che era già proprio dei cittadini, perché il potere politico appartiene ai cittadini, o se si vuole dirla alla maniera del giusnaturalismo, al popolo.
Castells è molto chiaro sulla questione del rapporto tra potere e cittadini: «Sono le relazioni di potere a dar forma alla società [potentia nel lessico di Dussel], poiché chi è al potere costruisce le istituzioni [potestas nel lessico di Dussel] sociali in base ai propri valori e propri interessi. Il potere è esercitato tramite gli strumenti della coercizione (…) e/o tramite la costruzione di significato nell’immaginario collettivo, attraverso meccanismi di manipolazione simbolica»[13]. Adesso a questa situazione di crisi delle istituzioni si deve rispondere con un processo di ricostruzione di istituzioni che siano al servizio dei cittadini, oltre che essere governate da cittadini e non da politici di professione o da tecnici. Finora il movimento degli Indignados ha messo in atto nuove forme di democrazia partecipativa, allargata a tutti i cittadini che manifestino la volontà di partecipare; sta conducendo un’opera di educazione a questa nuova forma di democrazia partecipativa e non violenta, è una democrazia lenta nel prendere decisioni, sia per la sua dinamica partecipativa, sia per il rifiuto di una logica produttivistica[14], ma è anche una pratica politica che permette l’autoriflessione, che è il fondamento di ogni forma di consenso convinto perché offre la condizione di un consenso radicato e di una conseguente azione politica di radicale opposizione. Di contro a questa auspicabile opera di educazione e di ricostruzione politica, c’è la drammaticità della situazione economica.
Naturalmente una situazione di ricostruzione impone la trasparenza delle istituzioni, dei rappresentanti, delle leggi e soprattutto l’esistenza dello Stato di diritto (la potestas), che è la prima, non sufficiente, ma necessaria garanzia del lavoro di corretta costruzione di un nuovo sistema politico. Questo è uno dei punti più delicati della storia del movimento rivoluzionario dei lavoratori. Tradizionalmente i lavoratori volevano abbattere lo Stato di diritto, perché lo confondevano con lo Stato borghese, permettendo l’edificazione di Stati comunisti fondati sull’arbitrio e sulla negazione dei diritti umani, perché non esistevano sistemi di controllo dell’operato dei partiti comunisti. Pochi intellettuali nel movimento rivoluzionario o nello stesso marxismo hanno preso posizione a favore del mantenimento e nel rafforzamento dello Stato di diritto. L’ultimo Lukács sostenne che il socialismo avrebbe dovuto mantenere lo Stato civile borghese, non perché borghese, ma perché civile. Dussel ritorna su questa questione e prende posizione per una trasformazione radicale del sistema vigente, ma sempre mantenendo e anzi rinforzando lo Stato di diritto, perché è lo strumento migliore per la realizzazione dei diritti di tutti, a partire dagli esclusi. Si pensi a come i deboli, politicamente parlando, vengono esclusi dai diritti umani; mi riferisco al caso dei portatori di handicap, incapaci fisicamente di mostrare pubblicamente la loro indignazione e sempre dimenticati nei programmi politici dei partiti, e che vengono esclusi sempre più, perché non vengono sostenuti economicamente e praticamente, dai servizi dello Stato. La giustificazione è che la crisi sta asciugando le casse dello Stato, ma non si può misurare l’offerta di servizi essenziali, come quelli a un portatore di handicap, sulla base della disponibilità economica dello Stato. Quei servizi devono essere precedenti a qualsiasi altra funzione dello Stato, sicuramente prima delle spese per l’attività politica, perché lo Stato è al servizio dei cittadini nel completo espletamento della loro personalità. Questo è il caso concreto in cui una minoranza viene usurpata dal proprio diritto a una vita degna, perché non ha una rappresentanza rilevante, dal punto di vista politico, che difenda i suoi diritti all’interno dello Stato di diritto. 
Dussel si sofferma a lungo sul contrasto tra partecipazione e rappresentanza: «La participación del ciudadano es un derecho inalienable instituyente (antes que constituyente), y tiene la dignidad del mismo actor político como momento constitutivo sustantivo de la comunidad política. Es por ello que la representación, como puede observarse, viene siempre después, y será un momento factiblemente necesario, determinado por la razón instrumental, que se sitúa sólo en la potestas»[15]. Nella politica borghese la rappresentanza (la potestas) ha schiacciato la partecipazione (la potentia), non escludendo l’opzione di abolire la democrazia per governare, come è accaduto nell’epoca del fascismo e come sta avvenendo oggi in Ungheria. La democrazia è, comunque, rimasta sempre limitata, perché limitata è stata la partecipazione politica dei cittadini. A costoro si chiede di partecipare alla politica soltanto nei momenti delle elezioni per confermare o smentire con il voto libero e segreto l’azione dei governi in carica. In realtà, però, sono esclusi dalle decisioni dei cittadini i momenti più fondamentali della loro vita, non c’è effettiva partecipazione alle decisioni politiche, piuttosto esclusione dalle decisioni, anche dalle più fondamentali. Prendiamo l’esempio dell’introduzione dell’euro: pochi cittadini europei sono stati consultati, tramite un referendum, se volessero cambiare o meno la moneta, che è uno dei mezzi più importanti in una società civile avanzata per agevolare il ricambio organico con la natura, per dirla con il lessico di Marx, o per dirla con il Dussel marxista, è un mezzo per la riproduzione della propria vita. Adesso che questa moneta è in crisi, gli europei sono chiamati a difenderla o a rifondarla, ma in fondo la devono difendere dall’azione fallimentare dei rappresentanti e dei tecnici che si erano dati il compito di governare l’euro. Siamo in palese presenza di un caso di assenza di democrazia economica, perché il sistema politico è oggi organico allo sfruttamento e alla sopravvivenza del modello capitalistico, non alla sopravvivenza dei cittadini e della società civile. Un’altra politica con l’attuale classe politica, oggi al potere, non è possibile, perché questa classe politica impone forme di democrazia limitata, quindi forme politiche in sostanza non democratiche.
La democrazia borghese è una democrazia limitata, perché non permette ai cittadini di esercitare il diritto di scelta su fondamenti supremi della vita quotidiana. La classe politica, una volta eletta, è capace di mettere in atto meccanismi di autoriproduzione e di salvaguardia dei propri interessi, che vivono un solo momento di crisi, che è quello delle elezioni. I fondamenti della democrazia borghese, sempre molto latenti, sono stati completamente stravolti e vige un generico stato di autoreferenzialità della classe dirigente, che si è quasi ovunque trasformata in classe dominante. D’altro lato, la tendenza presente nel capitalismo odierno è la richiesta continua di sempre maggiore libertà di scelta e di azione nel campo economico. L’imprenditore vuole liberarsi dei lavoratori che non sono ideologicamente affini a lui, vuole utilizzare i lavoratori a suo comodo senza oneri sociali, vuole libertà completa per il proprio movimento nella seconda natura, cioè nella società. È un palese ritorno a forme di politica e di economia precedenti alla crisi del fordismo nel 1929. Marx aveva avvertito che il libero movimento nel materiale è impossibile, così nascono i movimenti di resistenza e i cittadini si indignano. La prima risposta è sempre la più facile, perché è quella brutale, così la civilissima Catalogna, governata da uno dei più etnocentrici governi che si possa immaginare, ha scatenato una brutale repressione contro gli Indignados di Barcellona, seguita a ruota dai governi criminali di Tunisia, Egitto, Libia, Siria e Yemen. Anche il governo statunitense, mai secondo a nessuno nell’uso della violenza, non è rimasto a guardare e ha agito violentemente, salvo poi concedere spazio di protesta alla condizione di non impedire il libero movimento del capitale, così gli Indignados statunitensi hanno il loro spazio di protesta, ma lontano da Wall Street, dove il capitale si riproduce liberamente.
Il cittadino comune, forse, non percepisce l’ipertrofia delle forze dominanti sul pianeta. L’enormità delle dimensioni del sistema dominante, da un lato, e la piccolezza del singolo individuo, dall’altro, sono complementari all’esercizio arbitrario del potere. Lo sono sempre stati; si pensi, ad esempio, al primo efficiente sistema di dominio totalitario, cioè alla Chiesa cristiana medievale, e alla distanza che caratterizzava il vertice della Chiesa, a Roma, e l’indifferente valore, dignità, del fedele cristiano, del servo della gleba, della donna o del fanciullo, della vecchia, che potevano vivere anche alla periferia di Roma o ai confini della cristianità, erano sempre considerati un nulla rispetto a quel vertice del potere. Quel vertice si arrogava il potere sulla vita futura, sulla vita dopo la morte, anche perché non aveva i mezzi, o riusciva a pensare ai mezzi, per garantire la vita in questa vita, cioè a garantire la vita prima della morte. Così si poterono condurre campagne di sterminio di massa contro le donne, isteriche o meno, vecchie o giovani, le cosiddette “streghe”, oppure realizzare il primo generale Olocausto della storia in America, contro una popolazione pacifica, che viveva secondo il proprio sistema economico, in assoluta ignoranza dell’esistenza dell’Europa, del cristianesimo, del Papa, gli indios precolombiani. Proprio l’esercizio totalmente arbitrario della potestas contro questi esclusi, contro gli indios dell’America latina, ha corrisposto al fallimento morale del cristianesimo e all’inizio della Modernità. Oggi stiamo rivivendo un momento simile di passaggio epocale: da una parte c’è un’élite che vive dei propri privilegi, dall’altra parte la maggioranza dell’umanità che sopravvive nella propria esclusione. La percentuale di divisione dell’umanità oggi esistente: il 99% è rappresentato dal proletariato, o per dirla con Ricardo Antunes di gente-che-vive-di-lavoro, e 1% di ricchi che governa  e domina il primo. Siamo di fronte a un grottesco e pericoloso caso di evoluzione dell’umanità, pericoloso per il Pianeta Terra, per la vita, per l’umanità. Il problema è in effetti il capitalismo e la realtà effettuale che esso ha creato, che oggi spinge gli esseri umani a non avere un futuro vitale. Siccome la distanza tra il centro del potere, dell’Impero, è talmente grande, la maggioranza degli esclusi crede che l’esclusione sia una condizione naturale, una legge di natura. Una piccola minoranza di questa maggioranza di esclusi si è indignata, ha sentito sorgere dentro di sé un sentimento di appartenenza a qualcosa e di sottrazione ad essa: si sente sottratta a una vita possibile.
Gli Indignados hanno conservato il rispetto di se stessi, rispetto che la maggioranza degli esseri umani sta perdendo. I problemi che gli Indignados si trovano ad affrontare in questa seconda fase del loro movimento sono evitare l’isolamento dalla società civile, il rimanere legati ad una posizione politica che Hegel definirebbe della “mera negatività”, del sapere dire no, nel protestare, ma non sapere avanzare proposte. Se gli Indignados dovessero limitarsi a chiudersi in una piazza, a suonare le chitarre, a stare insieme senza trovare un progetto alternativo al sistema dominante, allora sarebbe confermato il sospetto che accompagna la sinistra dalla sua nascita nella modernità: è più facile condurre una lotta politica senza un capo (ana-archia) che proporre e realizzare un cambiamento radicale nella società. Una decina di anni fa la sinistra argentina fu scossa dalla pubblicazione di un libro: Cambiare il mondo senza prendere il potere dello scozzese John Holloway. Era il libro adatto al momento politico del Cacerolazo, della protesta di piazza dei piccoli borghesi argentini che rivolevano indietro i loro depositi bancari. È vero che questi depositi, per la stragrande maggioranza dei borghesi argentini, rappresentavano la vita futura, una vecchiaia tranquilla dopo un’esistenza di lavoro, un futuro per i figli o per i nipoti, a fianco a questa forte, ma politicamente ed economicamente sterile protesta, c’erano le fabbriche occupate dagli operai, perché abbandonate dai padroni, che fuggivano con i capitali, che gli erano stati concessi dallo Stato per far funzionare quelle fabbriche. Le fabbriche funzionavano meglio che sotto la conduzione capitalistica e, in qualche caso, aumentavano la produzione; gli operai costruivano un futuro possibile. Holloway era il leader intellettuale dei piccoli borghesi argentini, ma non degli operai che sapevano condurre una fabbrica, ma non sapevano come proporre un cambiamento radicale del sistema dominante. Holloway era un anarchico, gli operai erano lavoratori. Dussel aprì una polemica con Holloway sostenendo che bisogna prendere il potere per cambiarlo, che era uno dei punti di differenza tra l’anarchismo e il marxismo, fin dai tempi della Prima Internazionale, e non come voleva Holloway ignorarlo, come se non ci fosse. Si tratta di tattica e non di strategia, può andare bene per una giornata di vacanza dal lavoro, per godersi il sole o per incontrare un amico, non per cambiare il mondo. Il mondo si cambia prendendo il potere, altrimenti sarà il potere a cambiare il mondo.
Il problema è occupare i luoghi del potere, sia del potere politico tramite elezioni e partecipazione, sia i luoghi del potere economico, quali fabbriche e banche. È necessaria una nuova distribuzione dei mezzi di produzione della ricchezza, altrimenti giovani che non hanno lavoro, né possono studiare, i giovani senza futuro, saranno costretti a una drastica riduzione delle loro potenzialità di vita. Castells sostiene che «Internet è la linfa vitale dell’economia globale interconnessa»[16], ma viene da chiedersi quale è il momento originario della produzione della ricchezza, perché Internet accelera la circolazione del capitale e, quindi, anche la sua quantità esistente, ma non genera nuovo capitale. Oggi circola una quantità enorme di capitale, ma la sua esistenza è fittizia, perché è costituita da capitale finanziario, mentre il problema degli esclusi dal sistema, gli Indignados, è il possesso dei mezzi materiali della riproduzione della vita. Il capitalismo attuale è tornato a porre in questione la vita stessa, come se fosse ritornato alle proprie condizioni originarie.
Per questa ragione, Dussel suggerisce una rilettura del pensiero politico di Marx, rilettura che è uno dei punti fermi della riflessione di Dussel negli ultimi venti anni, cioè dalla caduta del comunismo. La fine del comunismo ha rappresentato per Dussel la caduta delle barriere che dividevano il marxismo dal cristianesimo e, quindi, ha rappresentato la ricucitura di un pensiero alternativo al sistema dominante e la ridefinizione di valori comuni, come la difesa della vita in atto, cioè della vita esistente. Dussel ha colto in Marx la presa di posizione etica a favore della vittima del sistema e, per questa ragione, si sta schierando al fianco degli Indignados. Il pensiero politico di Marx si fondava su due momenti, l’autocoscienza del proprio essere e allo stesso tempo l’apertura a tutti coloro che, trovandosi in situazioni analoghe, possono collaborare al movimento di protesta e allo stato di ribellione o di eccezione. Gli Indignados possono affermare che essi vivono uno stato di ribellione come risposta a una stato di eccezione; si trovano nella  situazione di imporre il ritorno ad un uso dello Stato come comunità partecipativa di contro a quanto è stato finora lo Stato, cioè una comunità rappresentativa. La questione diventa se oggi, nella situazione attuale, la partecipazione può essere compatibile con la rappresentazione. Infatti la democrazia partecipativa è il sistema di legittimazione con il quale il popolo controlla le istituzioni rappresentative.Per Dussel «la democracía representativa es necesaria y conveniente, porque responde a un principio de realismo politico. No es posible gobernar en una asamblea permanente de milliones de ciudadanos. Pero de ahí a la aceptación y a la no institucionalización de la democracia partecipativa, hay mucha distanzia» e oggi la democrazia rappresentativa è in profonda crisi perché «la representación se está corrompiendo en todos los paises en este momento; si los gobiernos vegetan en la impunidad, es porque el pueblo no tiene instituciones participativas de fiscalización»[17]
Gli Indignados sono l’avanguardia di un movimento di radicale protesta e dello stabilimento di uno stato di ribellione che porta il sistema dominante ad un ripensamento dei suoi valori fondanti e, auspicabilmente, alla sua caduta. Naturalmente non si può puntare direttamente all’abbattimento del sistema dominante, ma si può –anzi si deve- lottare innanzitutto per la propria dignità, per la propria vita, per il proprio presente e per il proprio futuro. Si deve parteggiare per se stessi, perché non c’è altra alternativa, non esiste un altro mondo, se non quello che potrà nascere dalla propria lotta. Non è così scandaloso che Dussel si richiami all’esperienza rivoluzionaria leninista e maoista della guerra partigiana, intesa come la guerra di coloro che prendono parte, che parteggiano, che sono parte della società civile e a partire dalle posizioni della società civile difendono le proprie ragioni e innanzitutto rivendicano il diritto alla propria vita.
Se consideriamo la prassi politica messa in atto dagli Indignados, notiamo immediatamente un fatto straordinario: il ritorno al luogo originario della politica, la piazza. Le piazze occupate, le assemblee costanti, la discussione su tutti i dettagli della questione analizzata, nel pieno rispetto della tesi opposta e senza presenza di organizzazioni politiche, come i partiti, preposte alla prevalenza di una tesi su un’altra, sono i tratti tipici della autentica politica, non solo democratica, ma della politica. La politica nacque dal confronto dialettico tra esseri umani che, seppure differenti, ritenevano opportuno discutere le proprie tesi in pubblico. Occupare spazio, diventare res extensa, per dirla con il lessico di Descartes, non è soltanto un richiamo alla tradizione politica passata, ma è anche la denuncia che agli Indignados è rimasto soltanto il proprio corpo (res extensa) e non riescono a gestirlo, a soddisfare i bisogni animali degli uomini, come mangiare, coprirsi, abitare. Proprio nell’abitare lo spazio pubblico urbano consiste una forma di protesta ancestrale e originaria, oltre che originale. Castells aggiunge: «Gli spazi occupati […] creano comunità, e questa si fonda sullo stare insieme, che a sua volta è un meccanismo psicologico primario per superare la paura. E superare la paura è la soglia fondamentale che gli individui devono oltrepassare per potersi coinvolgere in un movimento sociale»[18]. Ma oltre allo spazio urbano, Castells invita ad occupare lo spazio in rete, perché questo crea autonomia. Si crea una nuova forma di spazio politico.
 Gli Indignados hanno fatto tutto ciò, mostrando che le istituzioni politiche non sono capaci di risolvere le esigenze della società civile. Lo Stato democratico parlamentare, come lo conosciamo, dimostra palesemente la sua incapacità a risolvere i problemi di larghissime fasce della società civile. Per questo motivo, gli Indignados rappresentano oggi la punta più avanzata dello sviluppo politico della società civile. Possono diventare anche qualcosa di più, se le loro assemblee potessero trasferirsi dalla piazza alla fabbrica, se la classe operaia copiasse il loro esempio e iniziasse a discutere non solo della gestione della fabbrica, ma dell’organizzazione del lavoro, delle strategie di sviluppo economico. Si pensi all’imponente tentativo, in corso, di svuotamento e spostamento delle più grandi aziende produttive e a come la classe operaia potrebbe affrontarlo con assemblee, dove discutere di de-localizzazione o di snellimento del processo produttivo. Naturalmente a sostegno di queste forme assembleari di autogestione economica dovrebbero intervenire le istituzioni politiche, che dovrebbero garantire il controllo operaio delle fabbriche, abbandonate dal capitale, dopo aver ricevuto fondi statali per stimolare la produzione industriale. Avvenne proprio questo in Argentina nel 2001 e 2002, quando il governo peronista appoggiò l’appropriazione operaia delle fabbriche che i padroni abbandonavano al proprio destino. L’appoggio governativo non durò a lungo, perché i partiti operai non avevano la forza di occupare democraticamente le istituzioni a causa della loro ridottissima forza elettorale. Prima la nuova costruzione di significato e poi la potestas, le istituzioni, ma sotto il controllo dei sovrani dello Stato, i cittadini. 
Le istituzioni politiche sono oggi occupate da una élite che le utilizza come strumenti di sfruttamento della comunità nazionale. I leader vengono proposti dai media e dai media vengono fagocitati, i loro programmi vengono digeriti come slogan pubblicitari, e non a caso Chavéz si presenta in un programma televisivo come se fosse una stella della comunicazione televisiva, perché oggi i media, invece, che «essere espressione dell’opinione pubblica», si sono «trasformati in formatori o conformatori dell’opinione pubblica»[19]. Appena tramontata la loro esperienza politica i leader spariscono, come gli slogan della pubblicità, di loro si dimenticano i programmi, che avevano una scadenza come merci alimentari. Ma dei leader si sente il bisogno, perché si sente il bisogno di politica, così se i leader sono destinati a sparire, rimane la classe dirigente, sempre più lontana dai cittadini, corrotta dall’esercizio del suo stesso potere. Non si può, però, lasciare il potere di scelta dei leader ai media.
La classe dominante si limita a distinguere potentia da potestas e pone la seconda contro la prima. Per rendere ancora più efficiente questa contrapposizione, in un momento di acutissima crisi come l’attuale, sono chiamati ad occupare le istituzioni, la potestas, i tecnici, personaggi a cui si richiede come dote politica indispensabile il grigiore umano, perché non devono mobilitare le masse, né tantomeno fare sorgere in esse sentimenti euforici o di partecipazione politica. Il carattere anonimo o anodino delle istituzioni può colpire ancora più efficacemente la vita quotidiana, addirittura la corporeità dei cittadini, sempre più esclusi dall’esercizio della potentia, fino al punto che essi non si riconoscono più soggetti di potentia, ma soltanto oggetti dell’esercizio violento della potestas. Il potere si distacca sempre più dalla vita reale, la vita quotidiana degli esseri umani, si trasforma in una rete interconnessa che si scambia informazioni e controlla tutti gli ambiti della attività umana. Castells sostiene che a detenere il potere sono adesso una nuova specie di tecnici: «I programmatori capaci di programmare le reti più importanti da cui dipende la vita delle persone (…). E i gestori che curano le connessioni tra reti diverse»[20]. Ai cittadini rimane soltanto l’indignazione, un sentimento di perdita di valore. La classe dominante non riesce più governare la vita quotidiana, sia perché questa classe dominante è corrotta, cioè si è allontanata dalla comunità, oppure usa il proprio potere, la potestas, contro la comunità, oppure perché è serva dell’altra classe dominante, quella economica, la vera classe dominante globalizzata, che, a sua volta, è dominata dai ceti legati al capitale finanziario, alla mera apparenza del capitale, per dirla con il lessico di Hegel.
Questo è un punto cruciale della questione dello stato di indignazione o di ribellione che stiamo vivendo, perché qui si presenta una questione etica e politica allo stesso tempo, ma che fa chiarezza, secondo Dussel, dei rapporti tra etica e politica. Sostiene Dussel: «Hay entonces que comprender primero que la “ética” de ninguna manera se corrompe “metiendose” en política, porque se corrompiera al “meterse” en cada campo práctico(…) no serviría para nada. Su función, exactamente, es ser subsumida en cada campo práctico para instaurar dentro de ellos un régimen normativo que los haga posible y no contradictorios. También la economía sin éticase hace imposible. Sobre la imposibilidad del capitalismo, por estar fundado en la injusticia (…) del no pago (…) del plusvalor, Marx desarrolló su crítica al capitalismo […] Los efectos del no cumplimento de los principios normativos (…) son la destrucción de los individuos y la sociedad que terminan por corromperse»[21]. Per Dussel, quindi, il non rispetto dei principi normativi di un sistema pratico, come ad esempio il capitalismo, fondato sui principi della rivoluzione politica borghese, cioè “Eguaglianza, Libertà e Fratellanza”, finisce per corrompere il sistema stesso, la società che lo esprime e gli individui che la compongono. Si deve, allora, o realizzare in toto i valori che sono stati negati, oppure fondare un nuovo sistema di valori e, quindi, un nuovo sistema economico e sociale. Castells indica un forma di lotta, che superi la “mera negatività” e si trasformi in un’azione pratica incisiva: «Il contropotere, il tentativo deliberato di trasformare le relazioni di potere, trova corpo nella riprogrammazione dei network intorno a interessi e valori alternativi e/o nell’interruzione degli scambi dominanti nel passaggio tra reti di resistenza e mutamento sociale»[22]. Castells non dice quali siano questi valori alternativi, ma in quanto alternativi non sono quelli esistenti, e sembra schierarsi su posizioni più radicali, anche se non si chiarisce quali siano i fondamenti etici di queste posizioni. 
I ceti finanziari si fondano sull’astrazione del capitale, cioè il capitale che da capitale costante diventa semplice rappresentazione numerica della propria esistenza, una cifra su un conto che in quanto cifra può viaggiare con la velocità della luce per il globo per trasformarsi in azioni, ritornare capitale, divenire fondo di investimento e così via. Questa è la nuova forma di esistenza del capitale, che somiglia sempre più a un vampiro che svolazza nella notte della crisi alla ricerca di una vittima alla quale succhiare il sangue, come lo immaginò Marx. Questo capitale, questo vampiro, ha bisogno di un capitale costante mediante il quale riprendere la sua esistenza concreta, senza il quale rischia di svanire nel nulla dal quale è venuto. Così ha bisogno di trasformarsi in mutui per le case negli Stati Uniti o in Spagna, ma deve ritornare ad essere banconote, per poi essere reinvestito in fabbriche o, per meglio dirla, in lavoro vivo. Se non riesce a ritrovare velocemente la sua esistenza sotto forma di lavoro vivo rischia di diminuire di quantità, addirittura di sparire come vediamo in questi giorni quotidianamente. Alla mattina i media ci dicono di quanto svanisce la consistenza azionaria delle nostre banche, dei nostri vampiri, che ritornano nel mercato per trovare nuovi capitali, salvo pagare milioni di euro all’anno, e in qualche caso al mese, i loro dirigenti, nuovi vampiri che succhiano il sangue delle banche che dirigono.
Questa immagine truculenta è la rappresentazione del capitale che sta raggiungendo una delle sue più compiute forme di funzionamento, appunto il capitale finanziario. Marx aveva già anticipato questa fase del capitale. Sarà una fase finale? Ci sono molti segnali che potrebbe essere la fase finale, non perché c’è un nemico che possa abbattere il capitale, come pensava di fare il comunismo, ma perché il capitalismo si fonda su un metabolismo distruttore, è un mostro che divora se stesso, perché è plasmato da uno spirito animale di continuo e costante sfruttamento del lavoro vivo. Ma è pur vero che siamo in presenza di un fenomeno nuovo: il lavoro vivo si offre al capitale, ma questi non ha sufficiente forza per impadronirsene in massa. Se ne sta impadronendo troppo lentamente, questa è la sua crisi. Miliardi di esseri umani muoiono di inedia ai margini del mondo capitalistico, altri miliardi di esseri umani vivono stentatamente al suo interno, entrambi si vedono negati nel momento di riproduzione della vita, quello che il fordismo garantiva sotto forma di consumismo. Per consumare sono necessari mezzi di acquisto, ma l’ultraproduttività del sistema porta alla assunzione di lavoratori temporanei dove ci possono essere lavoratori fissi, all’aumento dei monopoli e alla loro difesa, come nel caso del sistema bancario, che non concede crediti ai produttori di base[23]. Il progetto di vita capitalistico non si può estendere a tutti e questo era chiaro da tempo, ma neanche gli esclusi possono restare a guardare vedendosi negata una vita degna di essere vissuta. Così una piccola pattuglia di questi esclusi, i giovani, riempiono le piazze e finora si sono limitati a dire: siamo indignati. E dopo, cosa faranno?
 


[1] Cfr. M. Castells, Reti di indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet, tr. it. B. Parrella e G. Barile, Milano, Università Bocconi, 2012, p. XXVII.
[2] Samir Amin, “La primavera árabe del 2011” in Herramienta, fasc. 47, a. XV, Julio de 2011, Buenos Aires, p. 128.
[3] Idem, p. 130.
[4] Cfr. M. Castells, op. cit., pp. 11-23. Castells narra delle protesta con pentole e coperchi degli islandesi, senza riportare che queste proteste ebbero lo straordinario precedente dei cazerolazos argentini o che gli islandesi aveva esercitato il potere civico nei confronti del loro governo, così come è previsto dalla Costituzione venezuelana!
[5] E. Dussel, “Democracia partecipativa, disolución de lo estrado y liderazgo político” in E. Dussel, Carta a los indignados, México, La Jornada, 2011, p. 66.
[6] M. Castells, op. cit., p. XXV.
[7] M. Castells, op. cit., p. 101.
[8] E. Dussel, “Meditaciones desde conyunturas políticas”, in op. cit., p. 103.
[9] E. Dussel, “Democracia partecipativa, disolución de lo estrado y liderazgo político”, in op. cit., p. 33
[10] Idem, p. 38.
[11] E. Dussel, “Meditaciones desde conyunturas políticas” in op. cit., p. 91.
[12] M. Castells, op. cit., p. 101.
[13] M. Castells, op. cit., p. XVIII.
[14] M. Castells, op. cit., p. 116-117.
[15] E. Dussel, “Democracia partecipativa, disolución de lo estrado y liderazgo político”, in op. cit., p. 38
[16] M. Castells, op. cit., p. 43.
[17] E. Dussel, “Meditaciones desde conyunturas políticas” in op. cit., p. 99.
[18] M. Castells, op. cit., p. XXIII.
[19] E.Dussel, “Meditaciones desde conyunturas políticas”, in op. cit., p. 128.
[20] M. Castells, op. cit., p. XXII.
[21] E. Dussel, “Meditazione desde contyunturas políticas”, in op. cit., p. 148.
[22] M. Castells, op.cit., p. XXII.
[23] Cfr. Nicolas Gonzaléz Varela, “Stato Nascente: Reflexiones sobre el Movimiento 15-M”, in Herramienta, fasc. 47, a. XV. Julio de 2011, p. 166.

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